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04 maggio 2006
Parole sprecate vol.2 Pearl Jam - Vitalogy
Proprio mentre è uscito il nuovo album mi sono trovato a ripescare una recensione di un album veramente epocale, almeno per me. i Pearl Jam e Vitalogy, anche questa recensione è stata pubblicata su Inni urbani :

Seattle, per la mia generazione è stata il cortile dell’adolescenza. Avere 12-13 anni adesso è veramente una merda. A volte mi fanno pena tutti quei piccoli mostri che rispondono al telefono con la suoneria della canzone del momento. Ai miei tempi le suonerie non c’erano. A pensarci bene non c’era nemmeno il telefono! E non c’erano gli mp3, non c’era internet, la tv via satellite. No, non era il 1800, era il 1994 e i Pearl Jam erano già al loro terzo disco.

Vitalogy è un disco che sin dalla confezione ti fa capire che vuole e deve essere ascoltato. Vitalogy è un libro, che mi sono portato nelle tasche di una camicia pesante (rigorosamente a quadri grandi) durante le lezioni al liceo. Vitalogy è confusione, è dolcezza, potenza e leggerezza, forse non la migliore, ma sicuramente una delle più belle prove artistiche a tutto tondo dei Pearl Jam.
Definire “intellettuale” la band di Vedder e soci è una forzatura, ma di certo non è possibile inscatolarla e metterla in cantina assieme a tutte le altre band storiche del grunge. Quello che si può dire, è che i Pearl Jam hanno dato una dignità musicale elevata alla corrente dalla quale sono nati, e già da questo terzo disco è evidente come l’evoluzione stilistica e tecnica di questa band sia in pieno svolgimento.

Alla fine diciamocelo, "In Utero" dei Nirvana, poco aggiungeva alla loro breve, leggendaria carriera, ma qui siamo di fronte al tutt’altra storia. Si perché Eddie non avrà la tecnica e l’estensione vocale di Cornell, ma della sua originalità ha fatto una scuola (vedi alla voce Creed). Con gli anni ha raggiunto livelli di intensità emotiva a dir poco strabiliante. Ascoltatelo in Nothingman (una delle più belle canzoni degli anni 90), in Better Man, e nella solenne Immortality (dedicata all’amico/nemico Kurt), gridate con rabbia i versi di Last Exit, Spin The Black Circle, Not For You.

Vitalogy è la morte di qualcosa, del grunge che non tornerà più, e il germoglio dell’inizio di una nuova vita. Perché troverete soprese inaspettate, una simil-danza indiana alla Doors (Aye Davanita), un’incursione nella follia degli Who di Cowebs And Strange (Bugs), ma soprattutto ascolterete una band che sa veramente suonare, che non ha paura di cambiare rotta e che cerca la propria strada evitando tutte le solite aspettative di critica e pubblico. I testi poi, mai banali, mai scontati, spaziano dalla cupa rabbia di Last Exit ("Let the sun shine burn away my mask / Let the ocean dissolve way my past") alla risoluta speranza di Nothingman ("…he who forgets will be destined to remember"), fino ad arrivare alla sublime Immortality, apologia disperata di un mondo del rock ormai vittima dei soldi ("as privileged as a whore… victims in demani for public show"), mondo cui Kurt Cobain ha ceduto la vita, evitando la “vera morte” ("…cannot stay long… some die, just to live").

Vitalogy è un punto cruciale nella storia di Vedder e soci, troppo caotico, forse, ma senza dubbio una splendida fotografia di una band ancora in corsa (Un album da avere anche per l’artwork, che meriterebbe da solo una recensione, così come le bellissime fotografie di Ament).

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Scribacchiato da G. D. alle 7:52 PM | Permalink |


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